"E’ TEMPO DI DIRE BASTA"



Di Domenico Carponi Schittar


Prendo spunto da due decisioni della Cassazione per esprimere il mio convincimento che sarebbe tempo per una presa di posizione dell’avvocatura civilista quanto alla inaccettabile "astrattificazione" del diritto operato con sottili quanto bizantini distinguo da giudici (e da dottrinari) la cui sola missione sembra sia quella di distanziare definitivamente tanto il diritto dal suo fruitore – che sarebbe bene ricordare che, per quanto riguarda il diritto sostanziale, non è il giurista ma l’uomo della strada – quanto l’interpretazione del diritto dal buon senso comune per tutti. Missione in via di perfetta realizzazione che rende evidente l’intelligenza di quei paesi che hanno affidato alla giuria popolare anche i giudizi sui casi civili.

Muovo da due esempi tra i molti che potrebbero essere citati a cominciare dalla sentenza delle Sezioni Unite Civili della Suprema Corte di Cassazione n. 7246 del 26.3.2007 di cui riporto la massima: "Nel caso in cui vi sia una vendita ed il relativo prezzo sia dissimulato, non è ammissibile la prova per testi, in quanto lo stesso prezzo non è elemento accessorio, ai sensi dell’art. 2722 c.c. ma elemento essenziale. Inoltre, essendo il prezzo elemento essenziale deve risultare per iscritto e per intero quando per il relativo contratto è prevista la forma scritta ad substantiam, non essendo sufficiente che quest’ultima sussista in relazione alla manifestazione di volontà di vendere e di acquistare".

E’ la codificazione del valore premiale della malafede.

E’ infatti pacifico che - non in termini di quod plerumque accidit, bensì in termini di assolutezza - si può affermare che la differente evidenziazione del prezzo tra preliminare e definitivo è sempre concordemente voluta con l’intendimento che il secondo non incida sul primo modificandolo.

Altrettanto si può dire del fatto che l’uomo della strada – cui la legge consente la stipula di qualsiasi contratto, con riserve che nulla hanno a che fare con la volontà espressa – crede di sapere della sopravvivenza delle intese preliminari.

Infine – mettendo al bando le ipocrisie che si spendono poi nelle cause - aggiungo che la speranza di una delle parti che la divergenza tra preliminare e definitivo le giovi per non adempiere quella che conosce essere la sua obbligazione è una pura e semplice àncora di elusione dal dovere che, incidendo sulla buona fede di partenza, scaturisce (o gli è inoculata) dalle indicazioni di qualche consigliere fraudolento (per lo più – ahimè - un giurista al corrente con la cassazione!).

Si legga il testo della sentenza citata – e quello delle analoghe che fanno la "consolidata giurisprudenza" - e ci si ponga nella cultura, nella legittima ignoranza di quel che dicono dottrina e sentenze, nell’affidamento alla promissio boni viri che costituiscono il diritto del quisque de populo e ci si chieda infine se non sia davvero il tempo di dire "basta" e di intimare a giudici e dottrinari di scendere dagli scranni e di ricordare loro che il diritto che non è comprensibile non è diritto e che è puramente e semplicemente dannoso, per una società che ha il privilegio di disporre di un codice civile dalla chiarezza di quello affidatoci da veri legislatori, rendere vago, ondivago, illogico e incomprensibile per il destinatario ultimo anche quel diritto che sarebbe invece percepibilissimo da chiunque.

Il che vale anche quando la lettura di quel diritto è affidata a tecnici.

Si legga la sentenza della Cassazione, Sezione Lavoro, 1.8.2008, n.21032 la cui massima riproduco: "In tema di ricorso per cassazione, il ricorrente, ove deduca l’omesso esame, da parte del giudice di merito, di documenti ritenuti decisivi ai fini dell’accoglimento della domanda (nella specie, comprovanti i requisiti per il riconoscimento della qualifica di funzionario), ha l’onere di evidenziare, nel ricorso, il contenuto dei documenti richiamati, nonché di specificare, ove sia applicato il rito del lavoro, che nell’atto introduttivo della lite gli stessi erano stati esibiti in comunicazione in conformità di quanto statuito dagli art. 414, n. 3 e 4, c.p.c., dovendosi escludere la sufficienza dell’indicazione della <mera allegazione> di documenti all’atto iniziale della controversia non accompagnata dalla specificazione del loro recepimento, in tale atto, nelle parti idonee ad attestarne la rilevanza a fini decisori"

Qui - da parte di un organo che talora scrive provvedimenti con scrittura di zampe di gallina venendo meno non solo a doveri di corretta comunicazione ma perfino a norme di buona educazione - si codifica il diritto del giudice alla pigrizia (per carità: che non sia costretto ad aprire il fascicolo dei documenti!) sostituendo una legge esclusivamente giurisprudenziale ("ha l’onere di evidenziare nel ricorso il contenuto dei documenti richiamati") alla strategia comunicativa che suggerisce ma non impone di facilitare al massimo il compito del lettore evidenziandogli i passi di rilievo invece di rinviarlo alla loro ricerca nel fascicolo dei documenti (ad esempio: "vedi documento nr. x primo capoverso"), come se l’atto (ricorso) non fosse tutt’uno con il fascicolo che DEVE accompagnarlo!

Qui, anzi, si fa di più: sempre a codificazione della pigrizia e per sollevare il giudice dal dovere di verificare la correttezza dell’operato delle sue cancellerie si sostituisce una legge giurisprudenziale ( "ha l’onere di specificare che nell’atto introduttivo i documenti erano stati esibiti in comunicazione dovendosi escludere la sufficienza della indicazione della mera allegazione") che non ha rispondenza nella lettera della norma (cfr. art. 414.5 c.p.c. "l’indicazione specifica (…) in particolare dei documenti". Cosa c’è di più specifico – dopo aver argomentato attorno a una tesi avvalorata da un documento prodotto – del "vedi il documento attoreo n. x" ?!) alla legge sulla formazione del fascicolo che pone un onere esclusivamente sul cancelliere (cfr. art. 168 cpc e. 72 e in particolare art 74 IV co disp. att.cpc).

Basta, per Bacco! Sarebbe ora di dire "Basta!"

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Avvbattaglini 02.07.2009
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